L’Istat ha dichiarato che il Pil italiano ha registrato nel 2015 un incremento pari allo 0,8 percento, per la prima volta con il segno più dopo tre anni consecutivi in campo negativo. Anche il rapporto deficit/Pil si attesta al 2,6%, dunque nel pieno rispetto del range previsto dai Trattati. E’ chiaro come l’aumento del prodotto interno lordo consenta di neutralizzare in parte l’aumento del debito pubblico.
Nel 2015 il debito pubblico in rapporto al Pil si è attestato infatti al 132,6% con un leggerissimo incremento rispetto al 2014 (132,5%). Si tratta di un nuovo record per il nostro Paese. Nonostante l’elevatissimo debito pubblico, lo spread tra i bond italiani e quelli tedeschi rimane contenuto: oggi 3 marzo è a 126 punti. Nel 2010, con un debito pubblico al 120% del Pil, con Berlusconi che minacciava di non fare i “compiti a casa” prescritti dalla troika e pensava forse di uscire dall’euro, lo spread tra Btp decennale e Bund di pari scadenza schizzava sopra i 500 punti, tanto da costringere il Cavaliere alle dimissioni, per poi scendere sino ai valori odierni, a partire dal governo Monti sino all’attuale esecutivo Renzi. E questo nonostante il debito pubblico sia continuamente salito, sino all’attuale 132,6% del Pil. Eppure i fondamentali dell’economia vorrebbero che il differenziale sia rapportato all’effettiva consistenza del debito pubblico, dunque lo spread rispetto al 2010 sarebbe dovuto salire piuttosto che scendere! Dunque dietro questi fondamentali dell’economia c’è la “politica” e le strategie di austerità che hanno contraddistinto sino ad ora le politiche della troika (Bce, Commissione Ue, Fmi). La “concessione” di un differenziale più contenuto rispetto ai titoli di Stato tedeschi, con la conseguente maggiore sostenibilità finanziaria del debito pubblico italiano (con meno interessi da corrispondere ai detentori) è stata ed è ancora oggi la contropartita che le istituzioni europee hanno riconosciuto e riconoscono all’Italia in cambia di politiche di austerità, tagli e privatizzazioni.
Le politiche per la crescita rivendicate da Renzi e la proposta europea sui titoli di Stato.
Matteo Renzi, e non solo lui, chiedono in conseguenza della “ripresina”, un po’ di flessibilità sui conti per poter fare un po’ di spesa pubblica in sostegno dell’economia. L’atteggiamento delle “istituzioni” non è sempre uniforme, tuttavia negli scorsi giorni una proposta ha agitato le acque: ridurre la presenza nei portafogli delle banche dei titoli di Stato domestici ad un massimo del 25 percento.
L’obiettivo dichiarato – si legge in un Report di Confindustria – è di ridurre l’esposizione degli istituti al rischio sovrano del proprio paese, con l’intento di spezzare il circolo vizioso tra sistema bancario e debito pubblico. Inoltre, si vorrebbe indurre le banche a destinare più risorse all’erogazione di credito a famiglie e imprese. Il risultato sarebbe diametralmente opposto: maggiori costi per i contribuenti e minor credito all’economia. La misura proposta si rivelerebbe inutile e dannosa. Inutile perché, anche quando l’Unione Bancaria europea sarà completata, i sistemi bancari rimarranno nazionali dato che il costo della raccolta sarà ancora legato ai rendimenti dei titoli di Stato di ciascun paese. Sarebbe così anche se le banche detenessero un quantitativo inferiore di tali titoli. In Italia e in altri paesi europei, infatti, esiste una relazione molto stretta tra l’andamento dei rendimenti dei titoli sovrani e quello dei rendimenti delle obbligazioni bancarie.Nel momento peggiore della crisi, le banche italiane hanno realizzato acquisti massicci di titoli sovrani nazionali: il loro portafoglio di tali bond è salito da 205 miliardi a fine 2011 a 402 miliardi nel giugno 2013, mantenendosi poi su quei valori (390 miliardi a dicembre 2015). Ciò ha contenuto l’aumento dei rendimenti sovrani, che erano già più alti dei valori giustificati dal rischio paese. Inoltre, ha consentito alle banche di migliorare il proprio bilancio, sostenendo la loro redditività. Se nel 2011-2012 gli istituti avessero dovuto limitare i loro acquisti, in Italia avremmo avuto un sistema bancario con bilanci peggiori e un credit crunch maggiore, e quindi minor credito all’economia. E avremmo avuto anche più elevati rendimenti sui titoli di Stato, con impatti negativi sui conti pubblici e sull’andamento del PIL.
Dietro tale proposta, tuttavia, ci sarebbero le mire della solita Germania: obbligare l’Italia e gli altri Stati periferici a ridurre nel portafoglio delle banche la consistenza dei titoli di Stato domestici comporterebbe, per evidenti ragioni, un incremento della presenza di quelli tedeschi, in quanto di rating decisamente superiore. Ciò da un lato potrebbe contribuire a migliorare il bilancio delle banche, ma allo stesso tempo aumenterebbe nuovamente lo spread, a tutto vantaggio dei titoli del debito pubblico tedeschi, e quel vantaggio rischierebbe di essere significativamente compromesso dalla degradazione del valore dei titoli domestici. La Germania avrebbe l’opportunità di rialzare nuovamente la testa e di trovare il proprio debito pubblico finanziato praticamente dal sistema bancario di tutti i Paesi dell’Eurozona. Uno strumento per conquistare maggiori spazi nel sistema bancario e nell’economia dell’Eurozona.