La crisi greca, con la capitolazione del governo Tsipras nella notte tra il 12 ed il 13 luglio, ha rimesso prepotentemente al centro dell’attenzione la questione dell’Eurozona e del suo autoritarismo, in particolare nei confronti di paesi periferici come la Grecia, ma anche Italia, Francia, Spagna e Portogallo e potenzialmente verso altri ancora, oggi più “solidi”.
Obiettivo di questo articolo non è tanto – o solo – analizzare le motivazioni politiche ed economiche che porterebbero a consigliare l’uscita dall’euro, e dunque dall’Unione Europea, ma analizzare per quanto possibile il quadro politico-economico e giuridico che sta alla base dell’appartenenza all’Eurozona e che giustificherebbe i vari vincoli, in particolare di bilancio, imposti agli Stati membri che hanno adottato l’euro e che hanno aderito al Trattato di Maastricht ed agli accordi conseguenti (primo fra tutti il famigerato fiscal compact).
Quanto alla Grecia, al netto di qualsiasi valutazione politica sull’operato della coppia Tsipras-Tsakalotos, è evidente che il perpetuarsi di misure di austerità a danno del popolo greco e soprattutto dei ceti medio-bassi, è a maggior motivo determinato dalla firma del Terzo Memorandum e dalla circostanza che nello stesso, ove non bastasse, viene rimarcato il fatto che la Grecia, oltre a dover attuare le misure recessive e punitive previste, deve rimettersi al rispetto dei rigidissimi obiettivi previsti dal fiscal compact, cui comunque sono tenuti i paesi dell’Unione Europea (praticamente tutti) che lo hanno sottoscritto. Così facendo dunque, la Grecia si avvita in una perversa spirale di austerità, indotta dal debito verso l’estero e dai bilanci in rosso, che devono invece attenersi alle regole dell’Accordo di Stabilità: il classico cane che si morde la coda.1
1. Il fiscal compact e gli obblighi di bilancio.
Il Patto di bilancio europeo, meglio noto come fiscal compact, è stato sottoscritto il 2 marzo 2012 da 25 Stati membri dell’Unione Europea su 28, con la sola eccezione di Regno Unito, Croazia e Repubblica Ceca.
L’Accordo prevede l’inserimento in ciascun ordinamento statale di diverse clausole o vincoli tra cui:
-
l’obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio (art. 3, c. 1)2;
-
l’obbligo di non superamento della soglia di deficit strutturale superiore allo 0,5% del Prodotto Interno Lordo (e superiore all’1% per i paesi con debito pubblico inferiore al 60% del PIL);
-
significativa riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL, pari ogni anno a un ventesimo della parte eccedente il 60% del PIL, con l’obiettivo di rientrare entro la soglia del 60% in vent’anni;
4.l’obbligo di garantire correzioni automatiche con scadenze determinate quando lo Stato contraente non sia in grado di raggiungere altrimenti gli obiettivi di bilancio concordati;
5. l’obbligo di mantenere il deficit pubblico sempre al di sotto del 3% del PIL; in caso contrario scatteranno sanzioni semi-automatiche.
Condizioni particolarmente gravose, come è facile intuire, soprattutto per quegli Stati con un notevole debito pubblico – come l’Italia – e/o con economie interne afflitte da recessione e da una domanda aggregata interna inadeguata, e da preoccupanti tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile. E’ questo l’identikit dell’Italia – anche se negli ultimi mesi vi sarebbero moderati segnali di ripresa e di lenta riduzione del debito pubblico – certamente della Grecia, nonostante le ultime rilevazioni diano un PIL in crescita dello 0,8%, della Spagna, del Portogallo ma anche della Francia, per non parlare di Cipro.
A questo punto sorge quasi spontanea la domanda: perchè i Paesi c.d. periferici dell’Eurozona hanno deciso di vincolarsi al Patto di Bilancio, consapevoli degli sforzi e dei tanti sacrifici da dover sostenere negli anni per potersi allineare ai parametri prescritti? Avrebbero potuto accodarsi agli altri tre Stati che decisero di non firmare? Una risposta, anche se necessariamente parziale, è data dalla convinzione imperante, anche e soprattutto presso il Fondo Monetario Internazionale ed i suoi economisti, che politiche di austerità e di contenimento della spesa pubblica avrebbero comportato automaticamente una graduale riduzione del debito pubblico e del deficit strutturale, per poi consentire agli Stati con i bilanci (divenuti) in regola di avere le risorse da destinare, nell’ambito di una nuova e più ampia spesa pubblica, alla crescita ed a innovazione e ricerca (austerità espansiva). Tale convinzione risultò ben presto fallace.3 Solo da poco ci si è resi conto che misure di austerità non comportano nei fatti la contrazione del debito pubblico: la riduzione, anche significativa, della spesa pubblica, in uno all’aumento dell’imposizione fiscale diretta ed indiretta, producono effetti recessivi talvolta catastrofici. I mancati nuovi investimenti nell’economia reale (imprese e lavoro) deprimono l’economia: si contrae la domanda interna e crollano i consumi, si riduce spesso e volentieri il salario disponibile come pure le pensioni, tagliate dalle misure di austerità e dalla contrazione di Welfare e spesa sociale in genere. Le aziende riducono la produzione e licenziano personale; aumenta la disoccupazione e si riduce drasticamente la domanda di beni e servizi. Di conseguenza si riducono redditi e fatturati delle imprese, redditi dei lavoratori dipendenti e spesso anche di quelli autonomi. Lo Stato incasso meno tasse, nonostante l’aumentata pressione fiscale, e così, riducendosi le entrate il debito aumenta, il Pil si contrae, entrando inesorabilmente in territorio negativo.
1.1. Il caso della Gran Bretagna
La Gran Bretagna, come noto, ha scelto di non far parte dell’Eurozona. Coerentemente con tale scelta il Regno Unito ha deciso di non aderire al fiscal compact. L’opzione praticata da Londra ha immediati ed evidenti risvolti positivi:
-
il Paese conserva la sterlina come valuta nazionale (forte); su di essa la Banca Centrale (Bank of England) conserva il potere di agire sul tasso di cambio e di eseguire le svalutazioni rese necessarie dall’esigenza di assicurare maggiore competitività all’economia in ambito internazionale ;
-
si possono realizzare politiche di spesa finalizzate al miglioramento dell’economia locale ed all’aumento della domanda aggregata interna, visto che non funzionano i vincoli di bilancio del fiscal compact e che non vige l’obbligo di rispettare il famoso rapporto deficit/Pil al 3%.
Vi sono poi ulteriori e significativi vantaggi direttamente connessi alla mancata partecipazione della Gran Bretagna alla Uem. Bank of England batte moneta autonomamente e dunque è totalmente indipendente dalla Bce. Può emetterne in teoria senza limiti, immettendo così liquidità direttamente nell’economia reale per sostenere produzione, lavoro e domanda; è inoltre prestatore di ultima istanza, nel senso che può concedere prestiti diretti allo Stato ovvero sottoscrivere sul mercato primario titoli del debito pubblico, acquistandoli direttamente dall’emittente. Operazioni vietate alla Bce dall’art. 21 del suo Statuto. La mission principale della Banca Centrale è infatti un’altra: assicurare la stabilità dei prezzi nell’Eurozona (art. 127 par. 1 Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea), con un’inflazione che non superi il 2%. Ciò rientra nei principali obiettivi di politica economica attribuiti dal diritto comunitario all’Eurotower, che può intervenire con i suoi pur limitati poteri con misure di politica monetaria, come da ultimo anche con le inefficaci misure espansive “non convenzionali” del T-ltro (Targeted Long Term Refinancing Operations) e del Quantitative Easing, l’acquisto da parte di Bce e banche centrali nazionali dell’Eurosistema di titoli di Stato da banche ed intermediari finanziari sui mercati secondari.4
Con il descritto sistema l’Inghilterra e la Gran Bretagna non solo possono indebitarsi e collocare titoli di Stato presso diversi investitori per finanziare la propria spesa pubblica, ma possono altresì farsi finanziare direttamente dalla Banca centrale con apposite linee di credito senza passare per il sistema bancario. Qualcosa di simile accade anche in Giappone con la Boj (Bank of Japan) e negli Stati Uniti con la Fed (Federal Reserve System) .
Nel 2014, secondo l’Istituto Nazionale di Statistica britannico, il prodotto interno lordo in Gran Bretagna è cresciuto del 2,8%, confermando l’economia del Regno Unito come la “locomotiva” delle economie sviluppate.5Nello scorso anno, inoltre, a dispetto di una lieve contrazione dei consumi – determinata anche da un contegno generale improntato a maggiore cautela negli acquisti per via della generalizzata crisi europea – è aumentato il reddito reale a disposizione delle famiglie, anche per il tonfo dell’inflazione. Per il 2015 vi sono previsioni di crescita sostanzialmente pari a quelle registrate nel 2014. La disoccupazione è scesa dall’8,5% al 6%.
Il fatto che l’economia del Regno Unito sia decisamente più performante di quella dell’Eurozona in genere, e di Paesi come la Germania (apprezzatasi nel 2014 dell’1,5%rispetto al 201 3), la Francia ed ovviamente, l’Italia, dipende da diversi fattori.
I motivi del successo dunque sono molteplici e risiedono certamente nella configurazione e nell’efficienza della macchina produttiva britannica, per due terzi incentrata su terziario tradizionale ed avanzato, come pure nella forza del sistema bancario e finanziario, ma un ruolo pregnante ce l’hanno senza dubbio la fiscalità, la totale autonomia valutaria e di politica economica e monetaria. La grande opportunità di avere un ruolo attivo sull’inflazione attraverso il controllo della massa monetaria fa certamente la differenza.
Dunque il non appartenere all’Eurosistema ed il non aver sottoscritto il fiscal compact costituisce per la Gran Bretagna un importante vantaggio competitivo rispetto agli Stati membri dell’Ue che invece aderiscono all’unione monetaria!
Il grosso limite della Uem sta proprio nel funzionamento della Bce, che non può finanziare direttamente gli Stati: l’unione monetaria è fortemente bancocentrica, nel senso che la Bce può erogare denaro e finanziamenti esclusivamente alle banche, che a loro volta li prestano, lucrandovi l’interesse, agli Stati ed ai cittadini (imprese e famiglie). Non così, evidentemente, Bank of England, che presta direttamente agli Stati del Regno Unito (Inghilterra, Galles, Scozia, Ulster), senza che questi debbano necessariamente indebitarsi con il sistema bancario.
1.2. Il Giappone e l’Abenomics.
Nel secondo trimestre del 2013, dopo essere tornato da poco al potere in Giappone con il Partito Liberaldemocratico, il primo ministro Shinzō Abe lancia un piano di politica economica espansiva, presto definito Abenomics, dall’incrocio tra il cognome del premier e la parola inglese economics (economia, sistema economico). Il ritorno al potere di Shinzō Abe avviene in un periodo di grande crisi per il Giappone, che era in depressione praticamente da dieci anni.
L’Abenomics si incentra su tre pilastri: 1) leva fiscale, con un generoso aumento della spesa pubblica destinato in prevalenza agli investimenti, anche a sostegno dell’iniziativa economica privata, ed in parte anche al Welfare, e con l’abbattimento del tasso di interesse sui depositi bancari, portato in negativo al fine di scoraggiare il risparmio privato e scongelare le liquidità prodotte, da orientare invece verso gli investimenti; 2) leva monetaria, con la svalutazione dello yen, tale da correggere in senso positivo la bilancia commerciale con l’estero ed aumentare le esportazioni, conferendo così all’economia giapponese una maggiore competitività rispetto soprattutto alla vicina Cina, che negli ultimi anni ha praticamente cannibalizzato l’intero scenario economico, corrodendo sensibilmente l’export giapponese, con immaginabili conseguenze su produzione ed occupazione. Last but not least 3) una politica monetaria espansiva, con l’immissione di nuova liquidità nel sistema da parte della Banca centrale (Bank of Japan), mediante la stampa di nuova moneta e politiche di alleggerimento quantitativo del debito pubblico attraverso l’acquisto, con parte della nuova moneta, di titoli del debito pubblico dal sistema bancario, anche al fine di far salire l’inflazione sino almeno al 2%. La nuova e maggiore spesa pubblica viene dunque finanziata in prevalenza dalla banca centrale, che come prestatore di ultima istanza presta danaro direttamente allo Stato; la banca centrale, inoltre, presta nuova moneta alle banche e sostituisce i titoli di Stato in portafoglio delle banche con liquidità, tutto in un circolo (monetario) virtuoso, nel quale le banche a loro volta finanziano imprese e famiglie meritevoli di credito. Nel biennio 2013-14 la Boj ha sostenuto un Quantitative Easing poderoso, acquistando dal sistema bancario fino a 70 trilioni di yen di bond per il 2013, aumentato ad 80 per il 2014.Certamente Shinzō Abe ed il suo staff si saranno ispirati al teorema keynesiano, in particolare a quello adottato per vincere la Grande Depressione del ’29 e per riportare alla crescita l’economia degli Usa.6
In effetti agli inizi le cose andarono per il verso giusto: nel primo quadrimestre del 2013 il tasso di crescita annuale del Giappone si è attestato attorno al 3,5%, mentre la borsa di Tokyo è cresciuta del 55% in brevissimo tempo; l’avanzo commerciale è cresciuto di trecento miliardi di yen grazie all’aumento del 12% delle esportazioni. Una pecca significativa nel modello, quantomeno agli inizi, fu rappresentata da una discreta svalutazione dei salari, poi in parte superata grazie ad un generalizzato incremento del salario base dei lavoratori, che ha aiutato l’economia a crescere. L’inflazione è incominciata ad aumentare – toccando anche il 4,5% nel corso del 2013 ed attestandosi al 2,38% nel 2014 – anche a seguito dell’aumento del costo delle importazioni, conseguente alla svalutazione dello yen ed alla drastica riduzione della produzione energetica dopo la chiusura delle centrali nucleari. Si è così incrementata la dipendenza dall’estero nel nevralgico settore energetico. Nel frattempo la spesa pubblica è però vertiginosamente salita fino al 245% del Pil. Per cercare di ridurla, il governo ha aumento l’Iva dal 5 all’8% e ciò ha contribuito, per converso, a deprimere la fiducia di imprese e consumatori ed a ridurre i consumi. Così il Paese è tornato in recessione. Per cercare di far fronte al problema, il governo, anche dietro impulso del Fondo Monetario Internazionale, prevede di tagliare la spesa pubblica di circa 62 miliardi di euro nei prossimi due anni.
L’Abenomics non ha dunque funzionato, dopo un avvio favorevole: sono mancate politiche adeguate per sostenere salari e redditi dei ceti medio-bassi; l’esagerato ricorso allo strumento del Quantitative Easing e quindi all’immissione di nuova liquidità ha sì contribuito al programmato aumento dell’inflazione, ma dall’altro ha alimentato una bolla finanziaria. In particolare con tassi di riferimento bassissimi per incentivare la ripresa, si può dire che il Giappone sia caduto nella trappola della liquidità, di cui parlava già negli anni Trenta John Maynard Keynes: la trappola è una situazione in cui la politica monetaria non riesce più ad esercitare alcuna influenza sulla domanda, e dunque sull’economia. Durante la Grande Depressione del ’29, in America, il tasso di interesse nominale raggiunse la parità e la temibile trappola – costo del denaro a zero senza effetti sulla ripresa economica – scattò inesorabile. Lo stesso accadde nel Giappone della Grande Deflazione negli anni Novanta. Keynes utilizzava la curva della preferenza per la liquidità proprio per dimostrare l’inefficacia della politica monetaria nelle situazioni in cui il mercato si dimostra poco reattivo alle variazioni del tasso d’interesse. In questo caso l’economia esprime una capacità produttiva lontana da quella potenziale nonostante un costo del denaro talmente basso da stimolare, almeno in teoria, consumi e investimenti. Il costo del danaro è così basso che spesso, in tali circostanze, le banche si attendono dalla banca centrale finanziamenti a tasso zero se non addirittura remunerati e, mutatis mutandis, anche i privati dalle banche finanziatrici. Dunque l’economia arretra ed i capitalisti spesso congelano investimenti e consumi, in attesa di tempi migliori.7
2..Le politiche di austerità in Grecia.
La Grecia costituisce ormai da diversi anni un vero e proprio laboratorio per l’attuazione delle politiche di austerità della Trojka (Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea, Commissione Ue). La storia recente della Grecia è nota a tutti: i negoziati sull’insostenibile debito greco si sono conclusi nella notte tra il 12 ed il 13 luglio scorso con la capitolazione del governo Tsipras e la firma del Terzo Memorandum.
La Grecia ha un debito pubblico spaventoso, che raggiungerà ormai il 200% del Pil a fine 2015.8 Il grosso del debito pubblico ellenico è in mano ad investitori stranieri, in buona parte rappresentati dalle istituzioni che si sono sedute al tavolo delle trattative. Ci sono poi gli Stati, in primis la Germania, che hanno trasformato il credito delle banche private, innanzitutto, in credito pubblico, surrogandosi a tutti gli effetti nelle ragioni di credito di esse.
Il Terzo Memorandum è durissimo per il popolo greco, ben più severo dei precedenti, anche perché si confronta con un debito enorme ed insostenibile. Di certo sarà impossibile per la Grecia ripagare l’intero debito, neppure a voler rispettare per filo e per segno il memorandum; ne sono consapevoli in prima persona proprio i creditori. La prima misura, assolutamente impopolare, ad essere stata adottata dal governo di Villa Maximos è stato il taglio delle pensioni minime di 90 euro, provvedimento a dir poco imbarazzante per Tsipras ed il suo partito. L’aumento dell’Iva sino al 23% anche sui principali prodotti alimentari, colpisce indiscriminatamente ma soprattutto i soggetti più deboli, ed è una chiara misura recessiva che porterà in breve tempo alla contrazione della domanda aggregata interna e dunque della stessa produzione industriale, con forte disoccupazione di ritorno. E’ previsto anche l’aumento dell’imposta sui redditi, che in proporzione colpirà maggiormente – anche in Grecia – i redditi bassi. Tutte misure palesemente recessive che, nella tradizione dell’austerity, non determineranno una riduzione del debito pubblico né maggiori entrate di natura tributaria per lo Stato. Il peso più opprimente per i greci è però quello del fondo di gestione delle privatizzazioni: il meglio dell’economia pubblica greca andrà dunque ceduto a privati (soprattutto tedeschi, come nel caso degli aeroporti) ed il netto ricavo conferito nel fondo servirà a garantire e soddisfare i creditori sino alla irrealistica cifra di 50 miliardi di euro. Solo una piccola parte, in subordine al soddisfacimento delle pretese creditorie ed al verificarsi di condizioni date, potrà essere destinata alla “crescita”. E’ stato però previsto che, a fronte di un deficit primario (saldo di bilancio, esclusi i pagamenti di debito) pari allo 0,25% nel 2015, negli anni successivi la Grecia debba sostenere sforzi improponibili (avanzo primario dell’0,25% del Pil nel 2016, 1,75% del Pil nel 2017 e 3,5% nel 2018). Nel caso in cui non vengano raggiunte le condizioni previste dall’Accordo, il memorandum – in sintonia con quanto disposto dal fiscal compact – prevede l’attivazione di un meccanismo automatico di taglio della spesa pubblica per conseguire gli obiettivi di avanzo primario “concordati”, con ulteriore contrazione della spesa sociale.
Queste dunque in sintesi le condizioni capestro contenute nel Terzo Memorandum; gravose rimarranno anche in ipotesi di rinegoziazione del debito che, stando almeno alle dichiarazioni delle controparti di Atene, non prevederà un haircut, ossia un taglio del valore nominale dello stesso, ma solo un diverso e più “comodo” scadenzamento delle rate.
A questo punto è facile chiedersi come farà il paese a crescere e ad assicurare ai creditori quel flusso necessario per ripagarli: le misure di austerità imposte, infatti, non faranno altro che deprimere ulteriormente la povera economia ellenica, riducendo i flussi produttivi, accrescendo la disoccupazione e riducendo dunque le entrate, proprio quelle che dovrebbero alimentare quell’avanzo primario richiesto invece dalla Trojka. L’unico strumento sensato per consentire ai creditori di far cassa è proprio quello della svendita dei “gioielli” ellenici con le privatizzazioni, che verranno acquistati da aziende vicine ai governi dei paesi creditori. In cambio lo Stato greco avrà solo un flusso di cassa da girare ai creditori; nel contempo si sarà privato di beni produttivi strategici e molti anche in attivo che, se conservati in capo all’amministrazione pubblica ellenica, genererebbero nel tempo ben maggiori benefici economici.
3. Allora perchè uscire dall’euro?
L’art. 50 del Trattato sull’Unione Europea consente ad uno Stato membro di recedere dall’Unione: “Ogni Stato membro può decidere di recedere dall’Unione conformemente alle proprie norme costituzionali”. Non sono ravvisabili invece norme che prevedano espressamente la possibilità di recedere dall’Uem e dunque di non adottare più l’euro quale valuta “nazionale”; secondo le valutazioni prevalenti, l’uscita dall’euro comporterebbe automaticamente anche il recesso dall’Unione Europea.
Qualche alternativa ci sarebbe, a dire il vero: la disdetta di alcuni trattati, in particolare Maastricht ed il fiscal compact che, come abbiamo visto al paragrafo 1, limitano fortemente l’operatività delle nazioni, in specie nella spesa pubblica da destinare alle politiche sociali. Tuttavia, adottata la strategia della disdetta dei principali trattati, soprattutto di quelli che impongono vincoli di spesa e di bilancio, sarebbe alquanto probabile l’adozione della “sanzione” dell’espulsione dall’Unione Europea e dall’euro.
Dunque in pratica non v’è rimedio per gli Stati che vivono l’euro e le politiche di stabilità finanziaria come un’autentica camicia di forza. Per potersi divincolare da questa stretta a volte mortale è dunque necessario procedere di pari passo all’uscita dall’unione monetaria (Uem) ed all’uscita dall’Unione Europea. L’uscita dall’euro si rende indispensabile perché le politiche monetarie nell’Eurozona sono condotte solo e soltanto sulla moneta unica e sono deliberate dalla Banca Centrale Europea. Gli Stati aderenti all’Uem, dunque, non hanno alcuna voce in capitolo. Il paese è “rappresentato” solo dal governatore della banca centrale nel board of directors della Bce.
La Banca Centrale adotta le sue misure di politica monetaria spesso senza tenere in considerazione le diverse condizioni degli Stati membri. Diciamo che non potrebbe farlo, perché statutariamente la Bce non è un organismo di natura politica, in quanto non può piegarsi, nelle sue politiche, a richieste e condizionamenti di uno o più governi. Questo però sulla carta. In realtà la Bce, nell’adozione e nell’attuazione delle sue misure, compreso l’ultimo Quantitative Easing, si è fatta fortemente condizionare dalle pressioni dei governi e delle banche centrali degli Stati membri più influenti, a partire da Germania e Francia. Per non parlare ovviamente della Grecia e della sospensione della liquidità di emergenza (Ela) al sistema bancario ellenico già prima del referendum del 5 luglio scorso. Inoltre la Bce è l’unico organismo competente a porre in essere misure di politica monetaria particolarmente importanti come la svalutazione monetaria. Pur in presenza di esigenze di questo tipo, ma ristrette ad uno e/o pochi altri paesi, la Bce non è mai intervenuta; se e quando interviene, infatti, lo fa generalmente per tutta l’Eurozona, che si compone però di realtà storiche ed economiche spesso eterogenee. Ciò ha creato problemi, per esempio, all’economia di un paese solido come la Finlandia, che non potendo procedere in autonomia alla svalutazione della moneta per esigenze di (maggiore) competitività sui mercati internazionali (export), è entrata in crisi. Ove non è stato possibile dunque, per carenza di legittimazione, procedere alla svalutazione della moneta, si è proceduto di converso alla svalutazione di stipendi e salari, proprio per poter offrire all’estero prodotti e servizi a quelle condizioni di maggiore competitività richieste, ricorrendo alla riduzione del costo del lavoro. Si sono però verificate inevitabili conseguenze in termini di calo della domanda aggregata e dei consumi interni. Insomma, il rimedio qui è stato assolutamente peggiore del male!
Trattati principali, moneta unica e politiche monetarie sono dunque il terribile terzetto che ostacola la sana crescita di molte economie nazionali. In assenza di un’unione politica e soprattutto fiscale, infatti, l’Unione Europea ha ben poche chance di essere quel luogo di solidarietà tra i popoli che qualcuno intendeva realizzare ai tempi del Trattato di Roma. Ciò finisce inevitabilmente con lo schiacciare le economie dei c.d. Paesi periferici ma anche, come appena visto, quelle di paesi tradizionalmente solidi come la Finlandia.
Altro importante motivo che consiglierebbe l’uscita dall’euro e quindi dall’Ue soprattutto agli Stati con economie più fragili e con elevato debito pubblico, sta nell’impossibilità di agire sulla leva del tasso d’interesse e quindi sulla svalutazione della moneta. Lo abbiamo già in qualche modo accennato prima. L’autonomia valutaria invece, consentirebbe con una valuta ad esclusivo uso e consumo nazionale e con una banca centrale nazionale dai pieni poteri, di poter tranquillamente agire sulla leva del tasso d’interesse e del cambio, per sostenere l’economia.
4.Come uscire dall’euro.
Allo stato non si è mai verificato l’abbandono di una moneta unica come l’euro. Se ne è parlato di recente come possibilità – in realtà non del tutto tramontata – a proposito della Grecia, con la famosa Grexit. Uscire dall’euro non è né facile né indolore, ma può essere nel medio-lungo periodo soluzione meno dolorosa rispetto alla permanenza nell’Eurozona, e ciò come detto soprattutto per gli Stati fragili economicamente e con un alto debito pubblico. Essi sono infatti maggiormente esposti alle “catene” dei vincoli di bilancio (dall’obbligo di pareggio di bilancio al rapporto deficit/Pil, alle misure della Trojka ed alle eventuali sanzioni pecuniarie) ed alle politiche di austerità. Sottrarsi alle pesanti condizioni del fiscal compact, però, non significa abbracciare di contro politiche di dissennata spesa pubblica e di ingiustificata tolleranza fiscale e moderazione salariale. E’ evidente come vada comunque osservata una corretta e prudente gestione delle finanze pubbliche.
L’uscita dall’euro deve essere pianificata dal governo in gran segreto ed essere attuata con grande rapidità, al fine di poter esercitare il miglior controllo sui capitali, per evitarne la fuga dai confini nazionali, soprattutto dei grandi capitali (anche se in parte già fuggiti, a beneficio di paradisi fiscali o comunque di paesi a fiscalità agevolata).
Perché l’uscita dall’euro possa essere meno dolorosa e difficoltosa la migliore dottrina economica individua una serie di provvedimenti, volti soprattutto ad evitare possibili situazioni di scarsa liquidità, fallimenti bancari e difficoltà per i debitori interni9:
a) il governo decreta che il pagamento delle tasse e le transazioni in tutti gli esercizi commerciali avvengano nella nuova valuta, e che pagherà salari, stipendi, ed imprese nella nuova valuta;
b) il governo, per evidenti esigenze pratiche, dovrebbe consentire la temporanea circolazione della nuova moneta con l’euro, atteso che alle banche centrali nazionali è demandato il compito di stampare banconote e monete metalliche in euro: la Bce, infatti, non batte direttamente moneta e ciò rende dunque più semplice la riuscita di una strategia di exit. La banca centrale nazionale (BCN), infatti, con gli stessi macchinari procederà contestualmente alla stampa sia di banconote e monete denominate in euro, sia di banconote e monete in valuta nazionale;
c) nel corso della contemporanea circolazione di monete e banconote espresse nelle due differenti valute, si procederà alla soluzione di tutti quei problemi logistici derivanti da macchine per biglietti, posteggi etc. funzionanti in euro;
d) tutte le riserve valutarie e di altro genere custodite dalla Banca centrale nazionale vengono congelate e ridenominate nella nuova valuta nazionale con un cambio alla pari (1 a 1)10;
e) tutti i prestiti concessi dalla Banca Centrale Europea al sistema bancario nazionale vengono anch’essi convertiti nella nuova valuta ed ad un tasso di cambio 1 a 1;
f) vengono convertiti nella nuova valuta tutti i depositi in euro dei residenti del paese presso banche nazionali, mentre i depositi di non residenti restano denominati in euro, che diventa così una valuta straniera;
g) tutti i debiti tra residenti vengono ridenominati nella nuova valuta. Si stabilisce inoltre che tutti gli interessi, oneri, ipoteche sui debiti esistenti siano pagati nella nuova valuta al tasso di cambio con l’euro di 1 a 1;
h) anche i titoli del debito pubblico, sia quelli di vecchia emissione che i nuovi, saranno denominati nella nuova valuta nazionale.
Quelli sopra descritti sono solo i provvedimenti di maggiore impatto pratico, che dovrebbero essere adottati a seguito dell’uscita dall’euro. Fondamentale sarà la nazionalizzazione della banca centrale nazionale e delle banche private. L’approccio marxista e leninista prevede come indispensabile la nazionalizzazione dell’intero sistema bancario in quanto ciò consentirebbe un controllo più penetrante dello Stato sull’economia, con il ritorno delle banche alla tradizionale attività di raccolta del risparmio ed erogazione del credito e con la fine della finanza speculativa.11
L’uscita dall’Uem comporta anche uno statuto nuovo per la banca centrale nazionale che, al pari di Banca del Giappone, Banca d’Inghilterra e Fed, solo per citare gli esempi più importanti, potrà acquistare titoli del debito pubblico sui mercati primari come pure dedicarsi al finanziamento diretto dello Stato. Con la difficoltà crescente ad ottenere finanziamenti dai mercati internazionali ed a collocare su tali mercati i nuovi titoli del debito pubblico, il governo dovrà evidentemente privilegiare la strada del finanziamento interno: con la nazionalizzazione della banca centrale nazionale e delle banche prima private, lo Stato collocherà il grosso del debito pubblico presso il sistema bancario nazionale, con un provvedimento che obblighi le banche alla sottoscrizione di titoli del debito pubblico.12
In siffatta condizione sembra dunque indispensabile, in particolare per i paesi gravati da un debito con l’estero notevole se non insostenibile, come soprattutto la Grecia, sospendere i pagamenti e dichiarare unilateralmente il default. Diversamente la (ri)conquistata autonomia non servirebbe molto ad alleggerire i conti pubblici anche con la stampa di nuova moneta e con tutte le misure di politica monetaria accennata. Andrà di pari passo, inoltre, un serrato controllo sui capitali per evitarne la fuga, che verrà condotto principalmente per il tramite del sistema bancario nazionalizzato.
Come noto, l’autonomia valutaria e di politica monetaria consentono, attraverso il controllo del costo del danaro (tasso di interesse) come anche dei tassi di cambio internazionali, di poter esercitare una serie di misure per rilanciare l’economia (bassi tassi di interesse quando l’economia è in crisi) e per ristabilire l’equilibrio nella bilancia commerciale (leva del tasso di cambio con le principali valute straniere).
Il fatto che la banca centrale nazionale disponga nuovamente delle funzioni sue proprie, senza dover attendere misure espansive dalla Bce che potrebbero non solo giungere tardive ma anche essere scarsamente efficaci o addirittura non arrivare, può consentire nel tempo di modulare in maniera appropriata gli interventi e di accompagnare più rapidamente il paese verso il risanamento e la crescita: l’emissione di nuova moneta, proprio in conseguenza della riconquistata sovranità monetaria, teoricamente può avvenire senza limiti. L’emissione di nuova moneta serve a sostenere la spesa pubblica per far riprendere l’economia nazionale e contribuire alla riduzione della disoccupazione: in poche parole per far riprendere la domanda aggregata interna e far crescere il reddito nazionale, anche con interventi di perequazione sociale. L’immissione di nuova moneta, la contrazione di nuovo debito pubblico, producono generalmente inflazione.
Anche il Quantitative Easing serve ad alleggerire il bilancio dello Stato dagli oneri debitori, visto che la spesa pubblica verrà in gran parte finanziata proprio dalla banca centrale nazionale con finanziamenti diretti ed acquisti sul primario di titoli del debito pubblico. Un sistema dunque simile a quello descritto nel paragrafo dedicato all‘Abenomics, ma senza le esagerazioni che hanno portato quest’ultimo al collasso.
Trattazione a parte merita il tema della svalutazione della moneta. Storicamente, tantissimi paesi che sono caduti in depressione ed in default – come recentemente Argentina ed Islanda – hanno dovuto svalutare la propria moneta. Si ritiene infatti che il deprezzamento valutario possa contribuire alla ripresa del paese, migliorando la bilancia commerciale con l’incremento delle esportazioni, con il pregio anche di far confluire nelle casse non poca quantità di valuta estera pregiata. La svalutazione avrebbe altresì il pregio di ridurre il costo di beni e servizi prodotti in ambito nazionale, così contribuendo al riavvio dei consumi interni.
Nel caso della Grecia, prima della firma del Terzo Memorandum, non pochi hanno ritenuto necessaria, per consentire alla dracma di incidere maggiormente sul mercato delle valute e per portare almeno in pareggio la bilancia commerciale ellenica, una svalutazione del 40%. In realtà la svalutazione, per avere reale efficacia, deve essere condotta in percentuali diverse a seconda delle valute di riferimento, e dunque dei relativi rapporti commerciali.13 Sempre nel caso della Grecia, un’idonea svalutazione avrebbe il pregio di rafforzare la bilancia con l’estero, grazie alle esportazioni e soprattutto al turismo. Il settore, con il recupero dall’evasione fiscale, creerebbe nuovo gettito fiscale e nuove assunzioni e dunque una generale nuova domanda di consumi, proveniente principalmente dai neoassunti. Tuttavia bisogna avvertire che, per le importazioni, il minor peso della valuta locale comporta maggiori spese (e quindi maggior debito) per approvvigionarsi di beni e servizi prodotti all’estero, con il rischio che i benefici apportati dall’export possano essere rapidamente neutralizzati dal maggior peso dell’import. Quanto alla dipendenza dal petrolio che costituisce di norma la preoccupazione più grande per un paese non autonomo sotto il profilo energetico, va segnalato che il problema è da ritenersi almeno in parte superato grazie alla considerevole diminuzione del costo di questa importante materia prima. Un paese che ambisca dunque all’autonomia valutaria e di politica economica, non può non prendere in seria considerazione il conseguimento, in tempi possibilmente rapidi, dell’autonomia energetica, facendo largo ricorso a fonti energetiche rinnovabili in alternativa a quelle fossili.
Per poter tuttavia effettuare una valutazione complessiva circa l’efficacia di una svalutazione, sarà necessario scomodare la teoria keynesiana della bilancia dei pagamenti. Secondo Keynes, importazioni ed esportazioni influiscono sulla formazione del reddito nazionale. Le importazioni dipendono non solo dai prezzi ma anche dal reddito, mentre è evidente come le esportazioni siano un elemento autonomo, ossia non dipendente dal livello del reddito. Le importazioni vengono considerate in funzione diretta del reddito nazionale, per cui all’accrescersi del reddito è previsto un proporzionale aumento delle importazioni. L’aumento di esportazioni, osserva Keynes, provoca un aumento del reddito che, a sua volta, accresce le importazioni.
Il saldo della bilancia dei pagamenti (differenza tra esportazioni ed importazioni) si esprime con una semplice operazione:
B = E – mX
Tale saldo è misurato in valuta nazionale, supponendo prezzi costanti e cambi esteri fissi. In caso di aumento delle esportazioni, ferma restando la propensione ad importare, come si modificherà il saldo? L’aumento di esportazioni produce un aumento del reddito e di conseguenza, un aumento delle importazioni. Pertanto, si osserva, si potrebbe avere un miglioramento come un peggioramento della bilancia commerciale.14
Si sostituisce dunque l’equazione del reddito nazionale nella definizione del saldo:
B = E – m (I + E) = s E – m I
s + m s + m s + m
Così dunque si misura l’effetto di un incremento delle esportazioni sul saldo della bilancia commerciale:
dB = s > 0
dE s + m
La derivata risulterà sempre positiva: un aumento autonomo delle esportazioni migliora sempre il saldo della bilancia commerciale.
In caso di svalutazione, se le elasticità delle importazioni e delle esportazioni sono tali da rispettare la condizione di Marshall–Lerner, le esportazioni crescono più delle importazioni.15
4.1. La svalutazione dei salari.
Secondo autorevoli osservatori la svalutazione comporta pressoché automaticamente anche la svalutazione di salari, stipendi e pensioni.16 Presupposti e conseguenza di tale ragionamento sono alcune statistiche registrate a seguito di operazioni di svalutazione monetaria adottate dalle banche centrali di alcuni Stati per aiutare le economie nazionali in difficoltà. Spesso e volentieri si è verificato un incremento dell’inflazione, meno consistente nei Paesi ad economie più avanzate. Per altro, come noto, anche l’Italia, nel biennio 1992-93 fu costretta ad uscire dallo Sme, causa la debolezza della lira rispetto soprattutto al dollaro Usa ed al marco tedesco, arrivando a svalutarsi sino al 30% nei confronti del marco. Tale misura comportò nell’immediato una riduzione del potere d’acquisto dei salari, anche a causa dell’abrogazione della scala mobile, abrogata per avere un maggior controllo su di un’eventuale escalation dell’inflazione. Alla fine, però, l’economia italiana e la bilancia dei pagamenti ne uscirono rafforzati.
Non è sempre detto che una svalutazione comporti un incremento dell’inflazione come pure la svalutazione dei salari non è conseguenza automatica dell’intervento sui tassi di cambio. Peraltro, è possibile ed anzi auspicabile eseguire più variazioni del tasso di cambio, anche nel corso dello stesso anno, se necessario, per adeguarlo all’andamento della bilancia dei pagamenti ed ai rapporti con le principali valute estere.
Ad ogni buon conto, non manca dottrina che ritenga come la soluzione al problema venga dal concreto utilizzo di strumenti anti-inflazione.17 Se il paese si dota di istituzioni anti-inflazione efficaci meno si svalutano i salari. In realtà, secondo Brancaccio e Garbellini, il problema sarebbe relativo, anche perché storicamente la svalutazione dei salari, nei paesi più importanti, si sarebbe attestata tra circa il 3% e circa il 6% annuo. Il problema risiederebbe, semmai, nell’eventuale prociclicità di tali svalutazioni, allorquando lo Stato e le autorità monetarie non fossero nelle condizioni di frenare la scivolata a partire dal secondo anno successivo alla svalutazione monetaria.18Per evitare questo sarebbero necessarie significative misure di Welfare, come sgravi fiscali e varie misure di assistenza sociale (sanitarie, scolastiche, famigliari etc.), ma soprattutto una riduzione dell’imposizione fiscale a carico dei redditi medio-bassi, rendendo così più alto non il salario nominale – che potrebbe portare ad un aumento dell’inflazione – ma quello effettivo, da spendere ed investire nell’economia nazionale.
5. Conclusioni.
La soluzione, da praticare medio tempore, è dunque quella di un rafforzamento dell’economia locale incentivando le esportazioni e diminuendo il costo dei prodotti locali, che solo la svalutazione autonoma della moneta può consentire, dunque a seguito dell‘abbandono dell’euro. Quindi bisognerebbe puntare alla riduzione della dipendenza dall’estero. La maggiore ricchezza per la nazione passa dalla redistribuzione del reddito con trasferimenti dallo Stato (meno tasse per i redditi medio-bassi) e dai capitalisti (aumento delle aliquote a loro carico, se particolarmente basse, e dell’imposta sulle società, patrimoniali) che contribuiscono al finanziamento del Welfare. Si tratta di un’operazione certamente non facile né di immediata applicazione, in quanto deve scontrarsi con le resistenze dei capitalisti e con tentate manovre di evasione ed elusione fiscale. Tuttavia è l’unica strada percorribile, resa relativamente più fattibile dal controllo dei capitali e dalla nazionalizzazione del sistema bancario. E’ pur vero però che bisognerà cercare di moderare l’aumento dell’imposizione fiscale a carico dei cc.dd. produttori, onde non rischiare, per contro, una riduzione della produzione e conseguenze negative anche nei confronti dei lavoratori. Le principali attività dovrebbero essere nazionalizzate ovvero attribuite alla gestione di comunità di lavoratori ed utenti (socializzazione), onde consentirne una corretta gestione e l’attribuzione dei profitti allo Stato ovvero ai lavoratori in autogestione, purchè venga realizzato con pochi costi a carico dello Stato. Ciò ovviamente presuppone uno Stato ed una dirigenza pubblica scevra da compromessi clientelari e da corruttele.
Come può facilmente evincersi, non esistono soluzioni perfette ma sicuramente, per i paesi esposti a politiche anche drastiche di austerità, l’uscita pur graduale dall’euro e dall’Unione Europea genera conseguenze certamente meno pesanti rispetto a quelle imposte dall’austerità.
1 Secondo l’Audit sul debito greco, buona parte del debito ellenico “è illegale, illegittimo e odioso” (http://greekdebttruthcommission.org/wp/)
2L’Italia ha inserito tale obbligo nella Costituzione, all’art. 81, con legge costituzionale n. 1/2012.
3Nel 2012 l’allora capoeconomista di Fmi, Olivier Blanchard, ammise che i programmi di austerità promossi dal Fondo durante gli anni di crisi hanno causato più danni di quanto previsto, a causa in particolare di un moltiplicatore risultato errato, adottato per valutare gli effetti sul PIL dei tagli alla spesa eseguiti in un contesto economico di recessione.
4Il programma di T-ltro “prevede prestiti alle banche, nominalmente destinati all’economia reale, ma senza un vero e proprio obbligo – in quanto risulta carente la sanzione in caso di inadempimento – per le banche beneficiarie a destinare effettivamente il denaro a finanziamenti a medio – lungo termine in favore di famiglie ed imprese. In concreto il sistema bancario ha parcheggiato buona parte delle risorse finanziarie ricevute dalla Bce con i Tltro nei mercati finanziari dei titoli di Stato, che garantiscono una remunerazione costante con le cedole, generalmente semestrali e dunque rendono di più degli impieghi ai privati, a causa del rischio di insolvenza generalmente più elevato conseguente alla crisi” (in MANUEL M. BUCCARELLA, Rischia di funzionare assai poco il Quantitave Easing lanciato dalla Banca Centrale Europea, in Dialettica e Filosofia, 7 marzo 2015 http://www.dialetticaefilosofia.it/public/pdf/78quantitative_easing_bce.pdf). Nell’ultima asta, tenutasi il 24 settembre 2015, le banche dell’Eurozona si sono aggiudicate solo 15,5 miliardi. Sono 400 miliardi di euro dall’avvio dell’operazione. La scarsa efficacia di questa misura si spiega soprattutto con il varo successivo del Quantitative Easing e con la possibilità di reperire risorse anche a migliori condizioni sul mercato dei capitali (MARCO FERRANDO, Bce, asta T-ltro al minimo. Alle banche 15,5 miliardi, Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2015, p. 35).
5Gran Bretagna “locomotiva” dei Paesi sviluppati: Pil +2,8% nel 2014 (http://it.euronews.com/2015/03/31/gran-bretagna-locomotiva-dei-paesi-sviluppati-pil-28-per-cento-nel-2014/)
6L‘Abenomics è da molti riconosciuto come uno strumento di politica economica di stampo neokeynesiano. L’interventismo statale in campo economico come moderno governo pubblico dell’economia, il riconoscere l’imprescindibilità della discesa diretta in campo dello Stato con l’incremento della spesa pubblica per il rilancio dell’economia, rispondono certamente al modello elaborato da John Maynard Keynes, che contribuì all’uscita degli Stati Uniti dalla gravissima depressione generata dalla crisi del 1929.
7 JOHN MAYNARD KEYNES, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino, UTET, 2006, pp. 351-361, 384-399; BRUNO JOSSA, Macroeconomia, Padova, Cedam, 2000, pp. 93-106
8In Italia a luglio 2015 il debito pubblico continua – seppur lievemente – a calare, raggiungendo 2.199,2 milioni di euro. Il rapporto tra il debito ed il Pil è salito al 135,1% nel secondo trimestre del 2015.
9SERGIO LEVRERO, Un passo indietro? L’euro e la crisi del debito, in Oltre l’austerità, AA.VV., Roma 2012, p. 192 e ss. (ebook da MicroMega online)
10Nel caso della Grecia, dove a fine giugno scorso sembrava che la banca centrale disponesse di riserve per ca. 23-24 miliardi di euro, la Piattaforma di Sinistra in Syriza, poi confluita dopo la scissione nella nuova formazione politica di Unità Popolare, propose di “espropriare” le riserve e di utilizzarle per le necessità urgenti del popolo greco (pagamento stipendi pubblici e pensioni), rispetto al cui assolvimento il governo si trovava in un grosso deficit di liquidità. Tale cifra sembrava tuttavia insufficiente, salvo che per un fabbisogno di pochissimi mesi. La proposta sarebbe stata maggiormente praticabile, secondo i suoi promotori, se il governo Tsipras non avesse provveduto, prima della capitolazione del 12 luglio, a pagare le rate ai creditori, consumando pressocché interamente le liquidità in cassa. Secondo Panagiotis Lafazanis e gli altri, il governo greco avrebbe dovuto procedere immediatamente, dopo il suo insediamento, a non pagare più il debito ed a dichiarare unilateralmente il default della Grecia.
11Le banche (…) sono i centri della vita economica moderna, i principali gangli nervosi di tutto il sistema capitalista dell’economia nazionale. Parlare della “regolamentazione della vita economica” ed eludere il problema della nazionalizzazione delle banche significa o dar prova della più crassa ignoranza, o ingannare “il popolino” (VLADIMIR LENIN, La catastrofe imminente e come lottare contro di essa, 10-14 settembre 1917). Sull’argomento anche MANUEL M. BUCCARELLA, Cosa bolle in pentola nel sistema bancario italiano dopo la riforma delle popolari?, 19 maggio 2015, http://anticapitalista.org/2015/05/19/cosa-bolle-in-pentola-nel-sistema-bancario-italiano-dopo-la-riforma-delle-popolari/
12Un’operazione di questo tipo non sarebbe stata particolarmente problematica in Grecia, dove la maggior parte delle banche private sono possedute dallo Stato per una quota pari all’80% .
13Nel settembre 1992 l’Italia fu costretta all’uscita dallo Sme in quanto le condizioni di cambio della lira rispetto alle altre principali valute (soprattutto USD e DEM) erano assolutamente svantaggiose per il Paese. Si arrivò a svalutare la lira del 30% sul marco tedesco.
14AUGUSTO GRAZIANI, Teoria Economica. Macroeconomia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992, pp. 538-542
15ABBA PTACHYA LERNER, The economics of control, New York, 1944, p 377 e s. Una svalutazione rende le merci interne meno costose, e quindi dovrebbe aumentare le esportazioni per la stessa ragione, mentre un aumento del valore della moneta riduce le importazioni. La bilancia dei pagamenti reagisce in modo normale quando la somma delle due elasticità delle esportazioni e delle importazioni, prese in valore assoluto, risulta superiore all’unità (condizione di Marshall–Lerner).
16EMILIANO BRANCACCIO–NADIA GARBELLINI, Uscire o no dall’euro, gli effetti sui salari in economiaepolitica.it del 19 maggio 2014,http://www.economiaepolitica.it/primo-piano/uscire-o-non-uscire-dalleuro-gli-effetti-sui-salari-e-sulla-distribuzione-dei-redditi/#.VHC3cIuG-Sr. Degli stessi autori Sugli effetti salariali e distributivi delle crisi dei regimi di cambio, Rivista di Politica Economica, luglio-settembre 2014; e Currency regime crises, real wages, functional income distribution and production, European Journal of Economics and Economic Policies: Intervention; RICCARDO REALFONZO-ANGELANTONIO VISCIONE, Gli effetti di un’uscita dall’euro su crescita, occupazione e salari, in economiaepolitica.it del 22 gennaio 2015, http://www.economiaepolitica.it/primo-piano/gli-effetti-di-unuscita-dalleuro-su-crescita-occupazione-e-salari/
17FRANCESCO DAVERI, Svalutazione e inflazione: cosa dicono i dati, in lavoce.info del 18 aprile 2014, http://www.lavoce.info/archives/19009/svalutazione-uscita-dall-euro-competitivita/
18EMILIANO BRANCACCIO–NADIA GARBELLINI, op.cit.