ECCO PERCHE’ L’EURO NON E’ IL PRINCIPALE PROBLEMA DELL’ECONOMIA ITALIANA.

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In questi giorni in tutta Italia militanti e simpatizzanti del Movimento Cinque Stelle stanno raccogliendo le firme per indire un referendum popolare di tipo consultivo sull’euro come. In pratica, gli aventi diritto verranno consultati circa l’opportunità di conservare l’euro ovvero di fare ritorno alla lira italiana.

L’adozione dell’euro, cosi come, per esempio, la partecipazione del nostro paese alla Nato o all’Unione Europea, discende dall’adesione ai relativi Trattati internazionali che, secondo quanto previsto dall’art. 75 comma 2° della Costituzione, non possono essere abrogati totalmente o parzialmente da referendum popolare. In altri paesi vigono norme diverse che invece consentono al corpo elettorale di esprimersi,  spesso anche preventivamente, con referendum giuridicamente vincolanti.

Negli ultimi anni l’avversione degli italiani nei confronti della moneta comune è andata crescendo, di pari passo con il protrarsi ed aggravarsi della crisi economica. Di questa crisi si da spesso la colpa, esclusiva o no, proprio all’euro. Si è detto che il potere d’acquisto degli italiani, soprattutto dei lavoratori salariati (e non solo), è drammaticamente crollato dall’entrata in vigore della moneta comune a causa del cambio non favorevole (quasi 1 a 2) che fu negoziato da Prodi. Inoltre si sostiene che la moneta unica, in uno alle politiche monetarie poste in essere dalla Bce valide per tutta l’Eurozona, finiscano con il penalizzare l’economia italiana, dovendo subire quest’ultima le scelte provenienti dalle economie più forti dell’Unione Europea.

Quanto sopra risponde solo in parte a verità. Innanzitutto è probabile che il concambio lira/euro sia stato in parte sfavorevole, ma è ancor più vero che dal giorno della vigenza della nuova moneta si sono verificate speculazioni in quasi tutti i settori merceologici, che non sono state adeguatamente denunciate e represse dalle autorità, ma anzi spesso accomodate, anche dalle varie Confcommercio e Camere di Commercio. Si è commesso spesso il reato di aggiotaggio e speculazione su merci, che raramente la magistratura ha sanzionato, a tutto danno dei consumatori e dei fornitori delle materie, soprattutto nel settore agroalimentare. Gli agricoltori ed i coltivatori diretti si sono in larga parte impoveriti – anche gravemente – a causa delle speculazioni. Con l’aumento dei prezzi e contemporaneamente della pressione fiscale si è aggravata la condizione del debito pubblico italiano, del deficit strutturale e della disoccupazione. Condizioni in peggioramento, anche in conseguenza della recessione galoppante e della deflazione (che aggrava – tra gli altri – anche il rischio disoccupazione) e che il Fiscal Compact, entrato in vigore il 1° gennaio 2013, aggraverà ulteriormente.

Il Fiscal Compact è destinato a cambiare sensibilmente la vita dei paesi che vi hanno aderito – tutti tranne Gran Bretagna e Repubblica Ceca – sottoponendo a rigidi controlli periodici e sistematici i bilanci di esercizio degli Stati. Come noto, il Trattato prevede che gli Stati membri rispettino il rapporto del 3% tra deficit e Pil e che i paesi, come il nostro, che soffrono di un pesante debito pubblico, riducano nella misura di un ventesimo ogni anno per giungere al 60% di debito pubblico in rapporto al Pil entro vent’anni. Il Trattato sul bilancio europeo (Fiscal Compact) prevede che la Commisione Ue possa attivare una procedura per disavanzo eccessivo nel caso in cui rilevi uno scostamento rispetto al rapporto defict/Pil al 3%, ovvero si verifichi il mancato rispetto degli obiettivi programmati di riduzione del debito pubblico sempre rispetto al Pil. Questi oneri prevedono solo delle parziali e temporanee deroghe, per non parlare dell’obbligo di pareggio di bilancio, inserito in Costituzione dal governo Monti. Tutte condizioni che contribuiscono non poco a deprimere l’economia italiana. Per questi motivi la sinistra radicale europea, a partire dai greci di Syriza, parteggiano per la disdetta del Fiscal Compact, soluzione che trova un certo seguito nei paesi c.d. periferici, come ormai anche il nostro.

A nostro parere l’Italia e gli altri paesi euromediterranei dovrebbero avere la forza di revocare la propria adesione al Trattato fiscale. Al contempo andrebbe revisionato lo Statuto della Bce, prevedendo cioè la trasformazione dell’Eurotower  quale ente di ultima istanza che, in quanto tale, potrebbe finanziare direttamente gli Stati, anche senza l’intermediazione del sistema bancario. Dovrebbe poi stampare moneta (oggi prerogativa quasi esclusiva delle banche centrali nazionali) con cui poter meglio gestire la massa monetaria circolante e quindi esercitare politiche espansive per aumentare l’inflazione ed acquistare direttamente titoli emessi dagli Stati membri anche con la nuova moneta emessa. La Bce dunque si affiancherebbe a Bei e Fei nel fornire la provvista necessaria per la crescita e lo sviluppo delle economie locali, in uno ai fondi strutturali e di coesione già forniti e gestiti in ambito regionale. Inoltre andrebbero emessi e collocati gli eurobond, in rappresentanza del debito pubblico complessivo dei paesi dell’Eurozona.Last but not least, la creazione degli Stati Uniti d’Europa (unità politica), su base federale o confederale e, conseguentemente, il varo definitivo di una politica fiscale comune. Ovviamente senza trascurare più agevoli obiettivi di sana e prudente gestione delle finanze e dei conti pubblici.

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