La Commissione europea aspetta maggiori informazioni sul processo di riforme in Italia, Francia e Belgio per la terza settimana di gennaio, secondo il commissario europeo per gli Affari economici e monetari Pierre Moscovici. L’esecutivo Ue ha deciso di aspettare marzo prima di esprimere un giudizio finale sugli Stati membri che rischiano di violare le regole comuni sui bilanci.
All’Italia, in particolare, viene richiesto uno sforzo suppletivo nella riduzione del deficit strutturale al fine di pervenire ad una più intensa contrazione dell’enorme debito pubblico, il secondo della zona euro in rapporto al Pil dopo la Grecia, di diminuire. Se la Commissione non si ritenesse soddisfatta dai progressi compiuti dall’Italia potrebbe avviare una procedura di infrazione per debito eccessivo, come implicitamente anticipato ieri dal presidente della Commissione, il lussemburghese Jean-Claude Juncker. Il commissario francese ha descritto “un’Europa al bivio” in cui prevalgono sfiducia e preoccupazione per la situazione economica dopo quasi 7 anni di crisi.
“La priorità della commissione è la crescita e rispondere alla sfide che pone la situazione dell’economia”. “In Italia è stato fatto un grande sforzo riformatore che la Commissione riconosce e saluta. Ritengo che in Italia in questo momento ci sia stabilità e consenso. Porto in Italia un messaggio di sostegno e non di ammonizione… Se pensiamo che alcune riforme necessitino di maggiore ambizione lo diremo”.
Il ministero dell’Economia e la Commissione hanno concordato di verificare insieme come le riforme possono aiutare la crescita e la creazione dei posti di lavoro nel breve e medio termine.
Le parole di Moscovici, a parere di chi scrive, sono espressione della famosa tattica del bastone e della carota: se il bilancio italiano, nonostante la crescita costante del debito pubblico ed un incremento – previsto e programmato dall’esecutivo italiano – del rapporto deficit/pil di almeno 0,3 punti ( 2,9 – 3 percento, ai limiti di quanto consentito dal Fiscal Compact) sia stato promosso con riserva, già il mese dopo i conti ritorneranno sotto la rigida osservazione della Commissione, con il rischio di una procedura d’infrazione se il paese non dimostrerà di essersi messo in carreggiata sulla strada della riduzione del deficit strutturale e delle ulteriori riforme che dovrebbero accompagnare la crescita. Ma se l’Italia non disdetta il Fiscal Compact, diventando il terzo Stato membro, con Regno Unito e Repubblica Ceca, a non osservarne le rigide e talvolta irragionevoli regole, come quella della costante riduzione del debito fino ad arrivare ad un debito pubblico non superiore al 60 percento del Pil, sarà difficile ritornare ad investimenti per la crescita, quelli che per altro chiede anche il Fondo Monetario Internazionale. L’Fmi spinge anche per una politica monetaria espansiva, che progetti l’aumento dell’inflazione sino anche al 4 percento (la Bce persegue invece l’obbiettivo massimo del 2 percento).
Quanto alle misure attese dalla troika, spicca quella del mercato del lavoro – ma l’eliminazione dell’art. 18 per i neoassunti e l’introduzione del contratto a tutele crescenti oltre alla sostanziale precarizzazione del lavoro difficilmente creerà nuovi posti di lavoro – e le privatizzazioni. Quest’ultime, in realtà, sembrano talvolta difficili da perseguire (si veda il caso di Poste Italiane SpA) e comunque apporterebbero benefici temporanei e di modesta consistenza economica per le casse dello Stato, che infatti avrebbe intenzione di offrire con forte sconto (del 40-50 percento almeno) ad eventuali investitori interessati, spesso e volentieri contigui al mondo politico italiano. Non sembrano queste dunque misure efficaci per ridurre il deficit strutturale e per rilanciare crescita ed occupazione. In parole povere, ci vogliono nuovi investimenti, a partire dalle istituzioni europee, con rilevanti modifiche allo statuto della Bce, che consentano la stampa di moneta per aumentare la massa monetaria circolante (in funzione antideflattiva) e che le possa consentire di concedere credito direttamente agli Stati membri, attività oggi vietata. In questo modo gli Stati immetterebbero liquidità direttamente nell’economia reale, anche a prescindere dai vincoli di Basilea 2 e Basilea 3, che limitano di fatto la concessione del credito da parte delle banche.