Senza fiducia, con 316 voti a favore, 6 contrari e 5 astenuti la Camera ha dato il via libera al Jobs act che ora passa al Senato per la terza e definitiva lettura. In segno di protesta contro la riforma che sancisce di fatto l’abrogazione dello storico articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, concepito ben 44 anni fa, nel 1970, circa quaranta deputati Pd non hanno partecipato al voto, due – tra i quali Pippo Civati – hanno votato contro e due si sono astenuti, aprendo di fatto una lacerazione nel partito di cui Matteo Renzi è anche segretario nazionale.
Oltre ai dissidenti del Pd anche tutte le opposizioni hanno lasciato l’aula prima del voto in segno di protesta. Il governo ora punta al via libera finale entro il 9 dicembre per poi varare i decreti delegati entro fine anno in modo da rendere operativa la riforma all’inizio del 2015.
La principale novità introdotta alla Camera è dunque la modifica all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sulla falsariga dell’ordine del giorno votato a settembre dalla Direzione del Pd. Matteo Renzi avrebbe voluto disciplinare la materia direttamente nei decreti delegati, ma una fetta di partito ha insistito per anticipare subito alcuni paletti entro i quali si dovrà sviluppare l’azione del governo. Il parere del Parlamento sui decreti legislativi, infatti, non è vincolante.
La delega prevede che per i lavoratori assunti con il nuovo contratto a tutele crescenti sarà possibile, in caso di licenziamenti senza giusta causa, chiedere il reintegro solo in ipotesi di licenziamenti discriminatori. Qualora invece il licenziamento fosse per motivi disciplinari il reintegro sarà ammesso solo in alcune fattispecie, che verranno dettagliate successivamente, in sede di decreti delegati. Il lavoratore avrà invece diritto a un indennizzo in denaro, ma non al reintegro, se il licenziamento avverrà per ragioni economiche.
Per i lavoratori con questo contratto, diversamente dagli altri, il reintegro al posto di lavoro non sarà più una opzione in caso di licenziamento per motivi economici. In caso di licenziamento per motivi disciplinari il reintegro sarà limitato a specifiche fattispecie e saranno previsti termini certi per l’impugnazione. Resta il diritto al reintegro per i licenziamenti illegittimi discriminatori e la possibilità di un indennizzo “certo e crescente” in tutti i casi (si parla di appena 1 mensilità e mezzo per ogni anno di anzianità, ndr). I decreti dovranno tipizzare le fattispecie per ridurre la discrezionalità dei giudici, uno dei difetti della legge attuale, secondo le imprese.
La delega punta a ridurre le tipologie contrattuali come i contratti a progetto, a superare i co.co.co – che resteranno in vigore “fino a esaurimento” -, e introduce il compenso orario minimo. Modificati anche gli articoli 13 e 4 dello Statuto dei lavoratori introducendo la possibilità di demansionamento del lavoratore e i controlli a distanza su impianti e strumenti di lavoro, che introducono modalità di svilimento della dignità del lavoro e della persona.
La riforma punta anche alla universalizzazione degli ammortizzatori sociali (Aspi) e a ridurre il ricorso alla cassa integrazione, di cui godono solo alcuni settori produttivi. Secondo il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, saranno garantite tutele a 1 milione di lavoratori in più. Il testo della Camera precisa che i lavoratori non avranno diritto alla cassa integrazione in caso di cessazione definitiva dell’attività aziendale o di un ramo d’azienda, e introduce la possibilità che le imprese in crisi siano acquisite dai dipendenti.
La legge di Stabilità stanzia 1,5 miliardi nel 2015 per la riforma degli ammortizzatori, più ulteriori 400 milioni tra 2015 e 2016. Per i critici si tratta di cifre troppo modeste per dare un sostegno a tutti i disoccupati, in quanto ci vorrebbero almeno 4-5 miliardi di euro. Per il governo, invece, sono risorse sufficienti se si sommano a quelle attinte dalle casse per la Cig. Si pongono dunque seri dubbi circa la fattibilità di un regime di flexicurity in Italia che consenta di compensare adeguatamente la precarizzazione del lavoro con un Welfare degno di questo nome.
La delega prevede inoltre l’estensione della maternità alle lavoratrici parasubordinate; un credito d’imposta per le lavoratrici con figli minori o disabili non autosufficienti; la promozione del telelavoro e delle forme flessibili; la possibilità di cessione dei giorni di ferie tra lavoratori per curare i figli minori. Previsti l’istituzione dell’Agenzia nazionale per l’occupazione, il rafforzamento dei servizi per l’impiego e l’unificazione delle comunicazioni alla Pa.
La legge e i decreti delegati entreranno in vigore il giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta ufficiale
Resta il fatto che il Jobs act ottiene solo 316 voti a favore. Numeri diversi rispetto a quelli a cui è abituato Renzi a Montecitorio : al suo insediamento, il 25 febbraio, i sì erano stati 378, i no 220, 1 astenuto; il 4 novembre scorso sulla giustizia civile i sì sono stati 353, 192 i no. I dissidenti della minoranza Pd hanno fatto scendere la soglia un pelo sopra la maggioranza assoluta. Nessun dramma sul Jobs act, provvedimento per il quale non c’era bisogno di alcuna maggioranza qualificata, ma un messaggio non rassicurante sui prossimi voti di fiducia e su altri provvedimenti, a partire dalla riforma costituzionale, che arriverà in Aula il 10 dicembre. E che non fa presagire nulla di buono neanche sul voto “campale”, peraltro segreto, per il Quirinale.