Eccessivo» e «mal distribuito». Sono gli aggettivi che la Corte dei conti attribuisce al nostro sistema tributario nel rapporto 2014 sul coordinamento della finanza pubblica presentato oggi al Senato. Secondo il Rapporto della suprema magistratura contabile, l’Italia detiene tuttora il triste primato in termini di imposte sul lavoro nell’Ue ed è seconda per le tasse sulle imprese. Viceversa non brilliamo per equa distribuzione del reddito.
A una forte contrazione delle uscite in conto capitale, che è proseguita nel 2013, fa da contraltare un lieve aumento di quelle correnti. In questo caso una soluzione a portata di mano ce la offre la Germania del 2007. Se seguissimo l’esempio tedesco la spesa pubblica italiana potrebbe ridursi di 4,5 punti di Pil (il 2,7% entro il 2018). Un accenno infine ai conti pubblici: rispettare gli obiettivi di bilancio in termini strutturali nel 2015 e nel 2016 richiede una correzione pari, rispettivamente, allo 0,3 e 0,6 del prodotto.
Il primo dato che balza agli occhi dal rapporto della magistratura contabile è il peso del fisco. Per la Corte dei conti alla base della distanza tra il «Paese reale» e il «Paese fiscale » c’è soprattutto l’Irpef. È proprio l’imposta sul reddito delle persone fisiche, con 41 milioni di contribuenti e un gettito pari al 36% dell’insieme delle entrate tributarie, a dare un contenuto a due nostri grandi problemi: un prelievo elevato, con pesanti ricadute sul costo del lavoro e sugli equilibri dei sistema produttivo; un prelievo mal distribuito, che sottolinea una penalizzante divaricazione fra il paese
reale e il paese fiscale.
Sul primo punto basti pensare che alla fine del 2013 la pressione fiscale è arrivata al 43,8%: quasi tre punti oltre il livello segnato all’inizio del terzo millennio e quasi quattro rispetto al valore medio degli altri ventisei paesi Ue (40 per cento, in riduzione nell’ultimo decennio). E anche le prospettive non fanno ben sperare visto che il Def 2014 annuncia un prelievo in ulteriore aumento e rimanda al 2017-18 per la prima inversione di tendenza. Ma se passiamo dal generale al particolare il quadro peggiora ulteriormente. L’Italia è infatti al secondo posto per il prelievo gravante sui redditi da lavoro (42,3%: sei punti oltre la media europea) e addirittura al primo posto in quello sui redditi d’impresa (25%: quasi il 50: in più della media Ue); viceversa è al ventiquattresimo posto (con il 17,4%) nel prelievo sui consumi, quasi tre punti in meno rispetto alla Ue. Quanto alla distribuzione del reddito basta un dato: il reddito reale disponibile del 10 per cento più ricco della popolazione italiana è cresciuto ad un tasso 5,5 volte più alto di quello relativo ai redditi dei più poveri (1,1 per cento contro lo 0,2 per cento). Fra i paesi dell’area Ocse, solo la Germania e la Svezia hanno registrato un divario più elevato.
Il documento sottolinea l’esigenza di arrivare a una riforma dell’Irpef. Andando oltre «la riluttanza del decisore politico ad assumere decisioni di natura tributaria in una prospettiva che non si configuri come uno sgravio generalizzato». Ed evitando al tempo stesso che le modifiche siano affidate «a strumenti “surrogati” ed improvvisati: dai “prelievi di solidarietà” (per livello o per tipologia di reddito), ai “bonus”, ai tagli retributivi tout court». Tutte scelte che – a detta dei magistrati contabili – «allontanano e rendono più difficile l’attuazione di un disegno razionale, equo e strutturale di riduzione e di redistribuzione dell’onere tributario». Che va attuato rimettendo mano al sistema delle tax expenditures.
Parlare di fisco in Italia significa per forza di cose parlare anche di evasione ed elusione. L’economia sommersa vale il 21,1% del Pil. Solo per Irap e Iva l’evasione stimata è pari a 50 miliardi. Mentre per l’Irpef «le stime più recenti indicano un tasso medio di evasione pari al 13,5% dei redditi». Dati che tuttavia sono riferiti al 2004.
Nel paper della Corte dei conti ampio spazio viene dato al tema della tenuta dei conti pubblici. Sin dalle prime righe, dedicate al «percorso stringente» che ci attende da qui in avanti. Stando al Def 2014 l’indebitamento nominale, in quota di prodotto, è previsto in continua riduzione, collocandosi a fine periodo allo 0,3 per cento del Pil, un livello definito «equivalente a quello del 1960 e il più basso dal 1946 a oggi». Al tempo stesso la spesa corrente si riduce nello stesso periodo di 2,7 punti in termini di prodotto rispetto al 2013. Nonostante gli andamenti tendenziali siano già collocati su un sentiero di rigore, i magistrati contabili sottolineano come per il 2015 e 2016 il rispetto degli obiettivi in termini strutturali richiede una correzione pari, rispettivamente, allo 0,3 e 0,6 del prodotto. Una correzione che porterebbe, sempre a fine periodo, il saldo di bilancio in avanzo. A un livello cioè che non realizziamo dal lontano 1925.
Nel 2013 il rapporto deficit/Pil è rimasto stabile al 3 per cento. A questo risultato si è giunti soprattutto grazie a un forte contenimento del disavanzo di conto capitale (-14 miliardi rispetto alle iniziali stime programmatiche). Purtroppo evoluzioni di segno opposto hanno interessato il saldo di parte corrente. Dopo un biennio di riduzione, le uscite primarie correnti sono tornate a crescere. L’incremento (+1,3 per cento) è stato superiore alla diminuzione (-0,5 per cento). È tuttavia proseguita la flessione della spesa per redditi (-0,7 per cento) e per consumi intermedi (-1,4 per cento). Anche gli interessi sul debito sono diminuiti, grazie al continuo ridimensionamento dello spread. Nel complesso, l’aumento della spesa corrente – imputabile a prestazioni sociali e contributi alla produzione – è stato inferiore alla riduzione della spesa in conto capitale; le uscite totali sono, pertanto, diminuite dello 0,2 per cento, rimanendo per oltre 12 miliardi al di sotto delle indicazioni programmatiche del Def 2013. Oltre alla preoccupazione per la flessione della spesa in conto capitale, che pregiudica – scrive la Corte – «il mantenimento e il rinnovamento del capitale infrastrutturale del Paese, c’è un altro dato da tenere a mente. E cioè che la necessità di uno sforzo collettivo aggiuntivo, con cui raggiungere il pareggio del saldo strutturale, permarrebbe anche in presenza di shock positivi sulla crescita. Solo un aumento della produttività totale dei fattori, elevando in misura consistente il livello del prodotto potenziale, consentirebbe di avvicinare il pareggio limitando l’intensità della correzione di finanza pubblica. Da qui l’invito ad «adottare politiche capaci di sospingere un generalizzato aumento del grado di efficienza del sistema produttivo». Come negli anni scorsi ha fatto la Germania.
Per rendere ancora più attuale l’esempio tedesco il rapporto contiene una simulazione sugli effetti che produrrebbe l’applicazione di una ricetta simile a quella teutonica. La premessa da cui si parte è che all’inizio del periodo 2012 l’Italia presentava una spesa primaria più bassa di quella tedesca (41,5% rispetto al 45%) mentre alla fine tale rapporto
risultava invertito (45,2% noi, 42,3% loro). E ciò grazie soprattutto alle riforme che ha avviato all’inizio del decennio e che le hanno consentito, all’arrivo della crisi del 2008, una gestione anticiclica della spesa senza che ciò travolgesse gli equilibri di bilancio. Per i magistrati contabili sembra ragionevole che l’Italia si dia come obiettivo di giungere al termine della fase espansiva dell’economia globale, che stentatamente si avvia, con un livello della spesa in rapporto al prodotto simile a quello che la Germania seppe raggiungere nel 2007. Per calcolare in che misura si è proceduto a un esercizio di benchmarking, assumendo come riferimento la quota di prodotto che la Germania destinava al finanziamento delle diverse funzioni pubbliche nel 2007. Paragonata a quella destinata dall’Italia nel 2012 agli stessi compiti viene fuori che spendiamo di più in otto delle dieci funzioni (specie in protezione sociale, sanità e servizi generali). Fanno eccezione solo le voci «abitazioni e assetto del territorio» e «attività ricreative, culturali e di culto». Complessivamente, la spesa pubblica sarebbe inferiore di 4,5 punti di Pil se ciascuna funzione pubblica assorbisse nell’Italia di oggi la stessa quota di Pil del 2007 in Germania (il 2,7% entro il 2018). Un buon motivo per seguire il loro esempio.
La disoccupazione nel settore privato. Continuerà anche nel 2014, anche se con un rallentamento rispetto al 2013, l’emorragia di posti di lavoro nelle imprese private in Italia. Per l’anno in corso Unioncamere stima poco meno di 792mila entrate a fronte di 935mila uscite con un saldo, quindi, negativo di 143.700 unità, dimezzato rispetto al 2013. Il sistema delle Camere di Commercio punta a raggiungere 30mila nuove imprese giovanili e 51mila occupati in più in 2 anni. Il rallentamento della perdita di personale nel settore privato, secondo i dati di Unioncamere e Ministero del Lavoro, si deve sia all’incremento delle assunzioni programmate rispetto a quelle previste nel 2013 (+42mila), sia alla riduzione delle uscite (-64.600). Nel 2014, quasi 36mila posti di lavoro andranno persi nel settore manifatturiero, 39mila nelle costruzioni e 67.300 nei servizi. Nel loro complesso, le imprese fino a 50 dipendenti genereranno l’80% del saldo negativo totale, 3 punti percentuali in più (ma fortunatamente con valori assoluti meno elevati) di quanto registrato nel 2013. A crescere, rispetto alle previsioni 2013, saranno le assunzioni non stagionali
Il Nord-Est è l’area meno penalizzata dalla perdita di personale nel 2014: -29.500 il saldo tra entrate ed uscite previste. Nord-Ovest e Centro si approssimano entrambe alle 32mila unità in meno, mentre nel Mezzogiorno occorre attendersi la perdita di 49.800 posti di lavoro. Le 791.500 entrate previste nel 2014 si ripartiranno tra circa 382mila assunzioni non stagionali, 231.500 stagionali e 85mila interinali. A crescere, rispetto alle previsioni 2013, saranno le assunzioni non stagionali (+14.400) ma soprattutto quelle a carattere stagionale (+35.600). In rallentamento rispetto alle previsioni 2013 la domanda di lavoratori interinali (-700 le assunzioni previste), di collaboratori a partita Iva e occasionali (-250) ma, soprattutto, di collaboratori a progetto, che dovrebbero essere oltre 7.000 in meno del 2013.
La proposta: esentare per 2 anni dai costi di iscrizione al Registro imprese
Unioncamere stima che siano 123mila i giovani che avrebbero intenzione di dar vita a una nuova iniziativa imprenditoriale ma che, per mancanza di mezzi finanziari o per le difficoltà connesse alla fase di startup rinunciano al proposito. A questo bacino potenziale è rivolta l’iniziativa presentata nell’ambito della 12a Giornata dell’Economia. Il sistema camerale, per facilitare la nascita di giovani imprese, propone al Governo di consentire l’esenzione totale per i primi due anni dei costi relativi all’iscrizione al Registro delle imprese delle Camere di commercio e la gratuità dei servizi di accompagnamento per i giovani che vogliano aprire un’impresa.