Il plusvalore: alcune osservazioni in merito alla sua creazione. Correttivi a beneficio dei lavoratori in un’economia capitalista. L’alternativa socialista di nazionalizzazioni e socializzazioni.
di Manuel M. Buccarella[1]
Art. 2086 Codice Civile (Direzione e gerarchia nell’impresa): “L’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”.
Questo articolo del Codice Civile italiano fu scritto in epoca fascista ed è rimasto invariato sino ai giorni attuali. E’ una disposizione di legge che di fatto legittima a pieni voti il capitalismo nel nostro ordinamento economico-giuridico. Questo significa anche legittimare lo sfruttamento del lavoro dipendente attraverso l’accaparramento del c.d. plusvalore. Il rischio, attraverso l’organizzazione di tipo gerarchico, è che gli anelli deboli della catena produttiva (impiegati ed operai soprattutto) lavorino, a bassa remunerazione, esclusivamente per la propria sussistenza e per la generazione di utili solo in favore del capo dell’impresa e degli altri pochi manager, autorizzati a farli propri in forza del rapporto giuridico-economico di dominazione gerarchica.
Un modesto correttivo viene già attuato in diversi ordinamenti lavoristici stranieri come in diverse aziende pubbliche e private italiane, e cioè la corresponsione di un premio correlato alla produttività aziendale (quando c’è e dunque solo in coincidenza di cicli aziendali espansivi), spesso accompagnato da un premio di rendimento, anch’esso di importo variabile come quello di produttività, e dipendente dalle performance individuali, come ad avvenuto raggiungimento di uno o più obiettivi personali prefissati all’inizio dell’esercizio dall’azienda, concordati o meno con le organizzazioni sindacali.
A seconda delle prassi aziendali e dei contratti collettivi nazionali e/o di secondo livello, si possono prevedere diversi tipi e dunque differenti denominazioni di premi costituenti parte integrativa variabile del salario cui, almeno la normativa fiscale italiana, riconosce carattere di retribuzione con la conseguente applicazione del regime ordinario di tassazione dei redditi da lavoro dipendente.
Premesso che la soluzione definitiva ed auspicabile è la seguente:
1) nazionalizzazione di Banca d’Italia, delle banche nazionali e delle grandi industrie ed imprese nazionali, sulla cui gestione pubblica venga esercitato un controllo diretto dai consigli di fabbrica e/o di azienda composti da lavoratori eletti a suffragio universale dai propri colleghi, anche al fine di esercitare controllo e gestione della produzione e della distribuzione degli utili;
2) gestione diretta da parte di comunità di lavoratori ed utenti delle imprese di dimensioni più piccole (c.d socializzazione),
allo stato le condizioni economiche dei lavoratori posso essere migliorate da politiche di meno intensa tassazione diretta del lavoro e dei salari (c.d. taglio del cuneo fiscale), oltre che dalla reintroduzione dell’indennità di contingenza (c.d. scala mobile), senza ovviamente escludere un ripensamento totale dell’imposizione indiretta e delle tariffe energetiche che, come noto, colpiscono più intensamente i ceti medio-bassi.
Quanto alla reintroduzione della scala mobile, definitivamente abbandonata nel 1992 dal governo Amato, a seguito di accordo con Cgil-Cisl-Uil, va detto che la stessa avrebbe il merito di adeguare i salari all’aumento del costo della vita, contribuendo così ad un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Sostenuta anche dal governo Obama con riferimento ai salari dei dipendenti federali, non è corretto ritenere che l’applicazione dell’istituto dell’indennità di contingenza comporterebbe un aumento dell’inflazione, in quanto in Italia si registra un tasso di inflazione estremamente modesto (0,7%) e comunque inferiore alla media Ue (1,00%) e che un leggero e controllato aumento dell’inflazione (c.d. inflazione strisciante) comporterebbe un incremento dei consumi e dunque conseguenze favorevoli per produzione e commercio e dunque anche per i livelli occupazionali. Una dinamica di crescita dei salari, pertanto, dispiegherebbe effetti positivi in termini di aumento della domanda interna. E’ notorio che le poche imprese italiane più al riparo dalla crisi sono quelle che soddisfano prevalentemente o maggiormente la domanda estera (export), mentre quelle che hanno quale riferimento prevalente il mercato domestico, sono quelle maggiormente attanagliate dalla crisi economica e dei consumi, e dunque a maggior rischio di default[2]. L’incremento del salario e della pensione disponibile contribuiscono all’aumento della domanda interna ed al salvataggio delle imprese italiane.
I successi nell’export della nostra industria dimostrano che se l’Italia non cresce, “ciò dipende principalmente dal crollo della domanda interna determinato dagli sforzi fiscali fatti in questi due ultimi anni per riequilibrare i conti pubblici: sforzi che, purtroppo,come già nel passato, sono stati operati quasi esclusivamente attraverso le tasse (riducendo drammaticamente il potere d’acquisto delle famiglie e di conseguenza generando un forte calo della produzione per il mercato domestico e disoccupazione in una spirale perversa)”[3].
Quanto esposto in merito ad un più coraggioso taglio del cuneo fiscale ed alla reintroduzione dell’indennità di contingenza spiega ancor di più perché sia necessario procedere al definitivo abbandono del Fiscal Compact, con l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione, del mantenimento di un rapporto deficit/Pil pari se non inferiore al 3%, con il gravoso piano di rientro previsto per i Paesi ad elevato deficit come l’Italia (significativa riduzione del debito pubblico al ritmo di un ventesimo (5%) all’anno, fino al rapporto del 60% sul Pil nell’arco di un ventennio (artt. 3 e 4 del Trattato di Stabilità Fiscale)), e con l’assoggettamento alle istruzioni/ordini della Troika (Commissione Ue, Bce, Fmi) della politica economica nazionale. Inoltre va previsto un salario minimo orario di 10 euro lorde e la totale esenzione da imposte dirette per i redditi inferiori ai 1.350 euro lordi. Per non parlare dell’aumento delle pensioni minime (almeno a 1.000 euro netti) e dell’introduzione del reddito di cittadinanza (almeno 1.000 euro netti mensili). Non è superfluo aggiungere come vada condotta, contestualmente, una seria politica di lotta all’evasione fiscale.
1.Socializzazione delle imprese e rivisitazione delle forme di partecipazione agli utili aziendali.
L’organizzazione di tipo social-cooperativistico deve essere il modello di riferimento, incentivato dallo Stato. Per le aziende invece ancora in mano privata si può pensare alla instaurazione di modelli premianti basati sul merito e sulla effettiva produzione, tali da determinare anche scatti di carriera automatici, indipendentemente dall’arbitrio dell’azienda e del responsabile dell’unità produttiva. L’azienda è dunque tenuta a corrispondere premi e progressioni in carriera automatici, oltre ovviamente al salario base, anche se il singolo lavoratore risulti inviso al responsabile dell’unità, rendendo il sistema meritocratico quello di riferimento ed introdotto come obbligatorio dalla legge. Anche nelle aziende “private” dovrebbe essere più incisivo il controllo dei lavoratori sullo svolgimento dell’attività produttiva tramite i consigli di fabbrica o dei lavoratori.
2. Rendite di posizione dei top manager.
Ai top manager delle aziende quotate nei mercati regolamentati, la legge consente di beneficiare dell’attribuzione di uno stock di opzioni su azioni emesse dalla società per la quale lavorano o da società del gruppo controllante o controllata. Fino al 2008 la legge consentiva, alla ricorrenza di determinate condizioni, che il conferimento di diritti di opzione venisse tassato come le rendite finanziarie, al 12,50%, al momento dell’esercizio del diritto di opzione. Il surplus dunque non veniva tassato alla stregua dei redditi da lavoro dipendente.
Con il dl 112 del 2008, convertito dalla legge 133 del 6 agosto 2008, la disciplina in questione è stata abrogata. Quindi, i conferimenti in azioni da parte della società al dipendente oagli amministratori devono necessariamente essere ricondotte nell’ambito dei fringe benefit e, come tali, considerate imponibili quali reddito di lavoro dipendente.
Ad ogni modo, se dalla vendita delle azioni rivengono utili, i dividendi vengono tassati al 12,50%, ossia ad un’aliquota estremamente vantaggiosa. Pertanto la condizione economica e fiscale del top management rimane comunque estremamente avvantaggiata rispetto alle altre categorie o classi.
Va dunque proposta una nuova piattaforma fiscale che esenti totalmente dal pagamento delle imposte i redditi sino a 1.350,00 euro lordi mensili e che prosegua progressivamente, colpendo con aliquote sempre più elevate i redditi più alti, secondo il principio costituzionale di progressività dell’imposizione fiscale. Più che i redditi da lavoro dipendente e da pensione, vanno colpite legrandi rendite finanziarie, elevando progressivamente dal 12,50% al 50 % il c.d. capital gain, in ragione del valore degliinvestimenti, fermo restando che per i piccoli risparmi l’aliquota dovrebbe ridursi al 12,50%.
[1] Cultore di Economia Politica e Diritto dell’Economia, scrittore e giornalista pubblicista. Email:mbuccarella@alice.it
[2] L’andamento dell’industria italiana nel 2013 ha registrato, in rapporto al 2012, un calo della domanda interna pari al 2,6% (al netto della variazione delle scorte), a fronte di un incremento della domanda estera netta pari all’1,1%.
[3] FORTIS MARCO, Sopravvive chi esporta ma l’Italia non consuma più, in Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2014, pp. 1 e 5.