E dire che qualche giorno fa pensavo a come mai Renzi, Padoan e Cottarelli non stessero pensando alle privatizzazioni, tra le riforme strutturali richieste, se non imposte dalla troika (Fmi, Bce e Commissione Ue).
In effetti qualche tempo fa Olli Rehn, commissario Ue agli Affari Economici, aveva chiesto all’Italia di procedere sul fronte delle privatizzazioni e della riforma del mercato del lavoro, questo per autorizzare tra i 3 ed i 5 miliardi di nuovi investimenti per sostenere la crescita dell’economia domestica. La risposta del governo in carica, quello guidato da Enrico Letta, non tardò ad arrivare,forse non sul fronte delle regole del lavoro, ma certo su quello delle privatizzazioni. Letta ed i suoi tecnici offrirono il 40% di Poste Italiane ed il 49% di Enav. Oggi Padoan riapre il capitolo privatizzazioni aggiungendo da subito anche Ferrovie dello Stato e Fintecna, poi una quota dell’Eni.
Le privatizzazioni vanno lette, purtroppo, come vere e proprie dismissioni di aziende in mano pubblica o di loro consistenti quote , ad un prezzo penalizzante per lo Stato e, dunque per la collettività. Dall’alienazione del 40 percento di Poste Italiane (quota valutata tra i dieci ed i dodici miliardi di euro), il precedente governo si attendeva di incassare appena tra i quattro ed i 4,8 miliardi, mentre il 49 percento di Enav è stato valutato invece 1,8-2 miliardi di euro, a fronte di un controvalore atteso pari ad un miliardo di euro. Ora il ministro dell’economia e delle finanze Padoan ha aggiunto alla lista Ferrovie Italiane e Fintecna, imprese strategiche, per le quali non sono state previste percentuali, anche se si prevede di non scendere al di sotto del 25%.
Il denaro raccolto dalle varie filiali ed agenzie delle Poste sparse su tutto il territorio nazionale, va a costituire una consistente dotazione in favore di Cassa Depositi e Prestiti, che controlla direttamente o per conto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, società strategiche per l’economia del Belpaese, come le stesse Poste Italiane.CDP è azionista di riferimento del Fondo Strategico Italiano (FSI) che opera acquisendo quote di imprese di “rilevante interesse nazionale”, in equilibrio economico-finanziario e con prospettive significative di redditività e di sviluppo. CDP è inoltre il principale azionista di ENI Spa. TERNA Spa e SNAM Spa. Possiede il 100% di SACE Spa, il 76% di SIMEST spa, il 100% di FINTECNA Spa. Cassa Depositi e Prestiti utilizza la raccolta postale per finanziare le società partecipate e per sostenere la crescita del Paese: finanzia parte consistente degli investimenti delle Pubbliche Amministrazioni, come i mutui contratti a condizioni agevolate dagli enti locali, mette a disposizione del sistema bancario la provvista necessaria per concedere finanziamenti a condizioni migliori rispetto a quelle di mercato per famiglie ed imprese; circostanza quest’ultima di non poco momento, considerato che in questi ultimi anni le banche hanno praticamente chiuso i rubinetti del credito (credit crunch), per cui parte significativa dei finanziamenti erogati dagli intermediari attinge dalla provvista Cdp. Ciò fa comprendere ancor di più, ove ve ne fosse bisogno, quale disastro costituirebbe per l’Italia la privatizzazione di Poste Italiane. Saccomanni ieri, Padoan oggi, dicono di voler privatizzare le Poste per ridurre il debito pubblico, mentre è evidente come il debito pubblico sia solo l’alibi per permettere la privatizzazione di un servizio pubblico universale. La vendita del 40% di Poste Italiane porterebbe infatti il debito pubblico da 2.068 a 2.064 miliardi, e nel contempo eliminerebbe un’entrata annuale stabile di almeno 400 milioni/anno (essendo l’utile di Poste Italiane pari a 1 mld).
Le privatizzazioni sono operazioni di scarsa efficacia da un punto di vista finanziario, considerato che il fiscal compact ci obbligherà dall’anno prossimo ad effettuare una sorta di finanziaria da 50 miliardi di euro per abbattere il clamoroso debito pubblico (al 136% del Pil). Lo Stato ottiene qualche miliardo di liquidità nell’immediato, mentre in realtà per ricavare 50 miliardi in un anno avrebbe bisogno di una crescita sostenuta – pressocchè impossibile – ed al contempo di un forte incremento della pressione fiscale che, in considerazione dei tempi relativamente stretti, rischia di colpire solo i redditi “certi”. Meglio dunque i tagli alle spese inutili, ai maxistipendi dei manager pubblici e la lotta all’evasione fiscale (180 mld all’anno) che comunque non prevede tempi nè numeri certi (vedi accordo con la Svizzera). In alternativa l’Italia dovrebbe dare disdette al fiscal compact ed agli accordi di riferimento.